“Emmanuelle” Villa Bombrini (GE)

UN ARTISTA INTERPRETA IL FEMMINICIDIO – GIULIO CARDONA – “EMMANUELLE”

dott.ssa Cristina Palmieri-cardona - EMMANUELLE- 300cmX200cm

Giulio Cardona – “Emmanuelle” – cm. 300×200

esposta a “Genovart” – Villa Bombrini – aprile 2017 (curatore Pierluigi Luise, critico d’arte Cristina Palmieri
Vi sono fotografi che – pur cercando di interpretare, attraverso lo scatto, quanto sta loro di fronte – si limitano ad immortalare una realtà per quello che è e per come si mostra. Affidano perciò al loro lavoro un carattere maggiormente documentativo.

Giulio Cardona è invece rivolto ad una ricerca che imprima alle immagini un’impronta cinematografica. A guidarlo è l’ideazione di scene, proprio come accade su un set filmico. Costruisce, alla stregua di un regista, una quinta teatrale, sulla quale fa apparire e recitare i propri personaggi, attori a cui affida il compito di interpretare e portare alla luce le contraddizione e le tensioni che agitano l’oggi.

Quanto conta del suo operato non è perciò solo lo scatto finale, ma la fase ideativa che rende questo, di fatto, il momento conclusivo di un progetto. Il processo creativo del fotografo implica un ripensamento dell’eredità che l’arte concettuale ha lasciato. Ritengo che solamente questo modo di intendere la fotografia possa portarla a collocarsi all’interno della ricerca dell’arte contemporanea, perché frutto dell’ingegno di un artista che immette nell’atto inventivo un procedimento immaginativo il quale ambisce a formulare una costruzione – o finzione – del reale. La narrazione si realizza nella concezione di una messa in scena.

A mutare non è solo il prototipo del fotografo come ricercatore di attimi singolari ed eccezionali, ma anche il concetto stesso di artista come unico e vero interprete della sua stessa opera. Chi si dedica a questo genere di fotografia non lavora mai da solo, bensì in equipe. La ricostruzione delle scene e delle ambientazioni avviene grazie alla collaborazione di uno staff di persone coordinate dal fotografo stesso, che concorre al raggiungimento del fine, quello di immortalare un passaggio, un personaggio, un luogo, , un’idea, un’emozione facendolo in un determinato contesto, con distinte caratteristiche; luci, ombre, angolazioni e inquadrature e ricerca di tecniche fotografiche personali e inusuali hanno un preciso senso semantico.

La scelta concertata di tutti questi elementi, nelle opere più recenti di Cardona, consegna immagini che paiono punti interrogativi sulla realtà, denunce di uno status quo che ci spalanca allo sbalordimento e all’incredulità. Il tema portato alla luce è quello, attualissimo, del femminicidio, vissuto e sperimentato, purtroppo, da vicino. Sovente pensiamo che alcuni episodi tragici e violenti possano toccarci ed entrare nelle nostre vite solo attraverso la voce dei media, sino al momento in cui accade che, invece, qualcosa di simile riguardi conoscenze a noi più prossime.

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Giulio Cardona – Emmanuelle Genovart – Villa Bombrini – Aprile 2017giulio cardona 3

 

Giulio Cardona – Emmanuelle Genovart – Villa Bombrini – Aprile 2017

Non è semplice “interpretare” un soggetto così angoscioso, proporne una lettura capace di divenire racconto simbolico e metaforico, per comunicare attraverso icone ed emblemi che attingono ad un immaginario collettivo che si spinge a ritroso attraverso i secoli e la storia. L’artista compie un cammino esplorativo che conduce a collegare a questa scottante problematica da un lato simboli legati alla purezza della donna, come l’abito sponsale, i gigli bianchi; dall’altro frangenti sociali ed emotivi della nostra attualità dall’impatto toccante, scioccante, disarmante, cercando di collocare la protagonista femminile in contesti particolari, con una potente valenza negativa. Associa così realtà assolutamente non contigue se non per la loro identica potenzialità di innescare emozioni ex negativo, portando alla luce archetipi che rammentano in modo immediato un’idea di violenza, di sopraffazione, di non-valore.

“Emmanuelle” è una di queste opere. Mi ha colpito profondamente quando ho avuto modo di osservarla attentamente da vicino in mostra a Genovart, presso Villa Bombrini, lo scorso aprile. Una fotografia, montata su sei pannelli cubici accostati, di una superficie totale di cm. 300×200. Rappresenta una donna, in abito da sposa, crocifissa. Lo sguardo tragicamente sofferente, disperato. I gigli, anziché accompagnarla all’altare verso il coronamento di un sogno d’amore, quindi di vita e felicità, adornano la sua croce. La coroncina di fiori le cinge il capo, come la corona di spine di Gesù. Emmanuelle, in ebraico, significa “Dio è con noi” ed è il titolo attribuito al Messia. La donna, perciò, viene assimilata a Cristo, assumendo un ruolo sacro, quasi salvifico, paragonata in toto al “figlio di Dio”. E’ infatti rappresentata nella veste bianca nuziale, a testimoniare una purezza intrinseca che viene violata, annullata, “uccisa” e sacrificata su quella medesima croce che è – nella cultura cristiana – la metafora della morte incolpevole, senza logica, senza senso. Il simbolo per eccellenza del male, della violenza assurda di cui l’uomo si fa latore e che porta dentro sé come un’ineludibile condanna. La donna che, divenendo sposa, potrebbe farsi foriera di nuova vita, del miracolo rinnovato dell’esistenza, diventa invece la vittima di una violenza che la assimila al sacrificio più noto della storia dell’umanità, quello del figlio di Dio. Una pena capitale feroce e brutale viene inflitta a chi non ha colpe, non ha macchie, non ha peccato. La morte dell’innocente, del bene che si immola e sacrifica per redimere l’uomo.

Accanto a questa donna Cardona pone una seconda croce, spoglia, collocata in una porziuncola disadorna ed austera. Il figlio di Dio non è più lì, perché sostituito dall’immagine di chi ne diviene il traslato umano ed iconografico.

Sotto accusa pare essere in questo modo la società attuale, quella dei consumi, che fagocita gli uomini “uccidendone” i valori autentici. Dominata dalla spersonalizzazione, dalla necessità di essere conformati, non può che produrre inquietudini profonde e comportamenti aberranti. L’atto di violenza, l’azione che porta alla tragicità di certi episodi quali il femminicidio, così come la crocefissione del Salvatore, non è che l’atto finale di comportamenti deviati e devianti, di situazioni che ormai quotidianamente saturano la nostra vita di assurdità e non-senso. Ogni giorno ognuno di noi è offeso e vilipeso nella propria dignità, ucciso nella propria libertà, costretto ad assoggettarsi ad un mondo che ha finto di regalare falsi miti e false speranze a saldo, per poi sottrarre a molti non solo i sogni, ma la fiducia. Talvolta solo immagini capaci di risvegliare con forza le nostre coscienze, “istantanee di riflessione” come quelle di Giulio Cardona, sono forse in grado di renderci lucidamente consci della realtà di cui siamo protagonisti inconsapevoli e supini. I meccanismi di rimozione addormentano l’inconscio collettivo, come del singolo, perché ognuno cerca un antidoto per sottrarsi al disagio di un vivere sempre più dimentico delle esigenze più autentiche e profonde.
Il gesto artistico, soprattutto e ancor più in un’epoca come la nostra, in cui la pervasività della “comunicazione forte” tende ad anestetizzare gli spiriti e ad omologare il pensiero, deve divenire uno strumento di relazione con il mondo, può rendere capaci di nuove angolazioni e prospettive di osservazione. Là fuori, come anche dentro di noi, c’è un mare che si agita e si increspa, un tempo che obbliga al cambiamento in modo troppo veloce e non consono alle nostre abitudini, assestate per decenni ed improvvisamente scosse. Dobbiamo correre, dimenticandoci di noi, di chi ci circonda, del bene e del male. Ma vi è un istante, un momento unico e topico in cui l’attenzione diventa necessaria, perché capace di innescare la consapevolezza. Dobbiamo uscire dall’apparente sicurezza delle fittizie evidenze per avere il coraggio di “vedere”. L’arte è questo. Un pertugio – talvolta perturbante – sul mondo, in grado di illuminare e costringere a guardare oltre le ombre; un’opportunità di essere compiutamente umani, perché bramosi di dare nome e volto alla realtà anche laddove ci appaia nebulosa.

CRISTINA PALMIERI
ALCUNE RIFLESSIONI DELL’AUTORE SUL PROPRIO LAVORO:

“Vorrei in breve spiegare la questione tecnica delle immagini che creo con la mia macchina fotografica.

Ritengo che oggi esistano tre tipi di fotografi: gli antichi analogici, i quali conoscono l’essenza ed i trucchi dell’ istante dello scatto; i medesimi creano le condizioni ottimali per realizzare l’immagine in una frazione di secondo: il clic dello scatto.

Sono coloro che utilizzano il materiale moderno come se avessero tra le mani una vecchia Leika del passato; si sono adeguati parzialmente alle nuove tecnologie e quindi non riescono a sfruttare le potenzialità del presente.

I fotografi moderni, i quali considerano la macchina fotografica come un accessorio del proprio computer, dando molta importanza alla post-produzione e disconoscendo che la base per un buon sviluppo dell’immagine sul software è quella di avere un file ottimo realizzato in fase di scatto.

In fotografia non tutti i risultati sono realizzabili solo in fase di scatto, ma è vero anche che molti effetti non sono ottenibili col Computer.

Esiste poi una terza tipologia di fotografi, di cui ritengo di far parte, ovvero coloro che hanno iniziato la propria esperienza con l’analogico; ancora immaturi nella professione, sono rimasti coinvolti dalla tecnologia digitale, con ancora tanta energia da impiegare nell’apprendimento.

Quest’ultima categoria di fotografi è la meno diffusa, perché affrontare una metamorfosi professionale comporta l’umiltà di mettersi in gioco e accantonare anni di esperienza.

Di fatto la mia affermazione non è del tutto esatta, perché oggi mi sento un fotografo con meno conoscenze del digitale, rispetto ad un medio professionista moderno, ma con la possibilità di utilizzare dei trucchi ed emulare tecniche analogiche col digitale di cui i moderni fotografi non ne conoscono nemmeno l’esistenza.

Lo stile tecnico della fotografia per ottenere “Emanuellle” è un esempio pratico di ciò che sto esprimendo a parole.

Con l’analogico si utilizzava un trucco che consisteva nel sovrapporre due immagini identiche di cui una sfocata, ciò era possibile montando sullo stesso telaietto della diapositiva le due immagini sviluppate; si otteneva così un’ unica immagine, la quale veniva stampata in “cibachrome” ( il sistema per poter stampare una fotografia non dal negativo di un rullino creato ad hoc per ottenere le stampe, ma dalla diapositiva).

La tecnica descritta veniva impiegata quasi esclusivamente per togliere i difetti sulla pelle nei ritratti delle modelle, perché l’immagine sfocata rendeva evanescente l’altra immagine sovrapposta, la quale – essendo perfettamente a fuoco – offriva comunque incisione alle linee del viso.

Questa è una tecnica fotografica che ho ricercato, elaborato e personalizzato nel tempo; è uno stile quasi inusuale tra i fotografi moderni; mentre non tutti i fotografi di un tempo  sarebbero in grado di emulare tale risultato col computer, pertanto la tecnica in questione è divenuta inusuale col passare degli anni.

CLICCA SULLE IMMAGINI PER VEDERLE COMPLETE

“Rafaera e la Costrizione”- cm 200×300 –

“Jessica e  la Lotta” – cm 200×200 –

“Barbra e il Vincolo” – cm 200×300 –

“Clair e le Sevizie” – cm 300×200 –

“Saburina e la Coercizione” – cm 300×200 –

“Manuera e l’Angusto” – cm 200×300 –

“Annalisa e l’Asfissia” – cm 200×300 –

GIULIO CARDONA